Marta Fabiani | Pavia 1953 – Nizza 2014

Notizie esaurienti riguardanti la sua biografia non sono facilmente reperibili. Negli anni Settanta dello scorso secolo, poeti quali Giancarlo Majorino, Carlo Porta e Giovanni Raboni, avevano saputo apprezzare le doti di rara bellezza presenti nella sua poesia. Il linguaggio incalzante con il quale si presenta nella raccolta di poesie Maratona, Cooperativa Scrittori, Roma, 1977, è solo una dimostrazione della carica dirompente di questa poetessa che ha sconcertato le contrade del gusto italico. L’espressività pressante dei suoi versi costituiscono un fluido amalgama in grado di alternarsi fra acrimonie verbali ed esaltazioni espressionistiche, i cui vincoli fanno da eco nel terreno scontroso del proprio vissuto umano (di donna) e su quello metafisico. Insomma, si è davanti a una poetessa che ha preferito restare sé stessa, piuttosto che inseguire le mode del momento.


Poesia n.18
Epistolario



Stai seduta sul gabinetto
con la tua garza indiana
mentre bevi la polvere del vomito
della donna gravida.
Col piede scosti il vaso dove
ha passato delle ore il bambino a cagare
aveva un anno, ma tu su questo non cedevi
bianco rosso e di tutti i colori ma tu
aspettavi che tornasse roseo
solo dopo aver finito. Basta, adesso ha una tata
comoda e neutra, quasi sempre neutrale,
e tu hai un’amica, e io
forse ho te, mentre ti faccio gli impacchi
d’aceto
e tuo marito ti coccola.
Dici che ti ha spaccato
la fronte col bicchiere:
dici che di qui non te ne vuoi andare.
Dici che quell’impiego mezza giornata
è una truffa: lo vuoi lasciare.
Tuo marito sa cucinare, è un gran maître,
era il tuo barman, tu
disponevi piatti allegri
in quell’inferno di acciaio e smalto blu.
Calcolatrici Honeywell, cieli cibernetici
tu contabile in qualche
ufficio col parquet.
Ma la nostra casa ha le scale
mobili; lui ti tiene qua.
Tutto elettrico, il gas non ce n’è:
niente maniglie alle porte, al massimo
lo sbrego pietoso di un bicchiere.
Senti i passi del vicino
disturbatore, che una volta il 113 ha chiamato.
Tu mai: il maritino
vuole cucirti il taglio, e gentilmente
si ripulisce le ferite col limone.
Tutto avviene in silenzio, da te:
io urlavo, urlavo, tu mi davi consigli. Tuo figlio
è uno schifo: piscia e frigna
mai che sorrida, quanti anni
di giochi didattici arretrati.
Hai ceduto, cogliona, questo è il prezzo
di saper aspettare
io ho saputo aspettare fin qua.
Mi sembrava finta la tua preparazione,
non mi sbagliavo: non era una vera vocazione.
Piantala di guardarmi
con gli occhi allucinati: vuoi che t’insegni
come si fa a esser sola, isterica, ninfomane
e parzialmente frigida? In due parole, insomma
una specialità?
Mi dispiace, troppo tardi,
da te non posso più imparare
ma da me tu niente.
Complicità del mestruo, roba vecchia
visciolo canale
che conosco quelle cose.
Malgrado tutto, cara
lui è ancora il più abile ad aggiustare.
Non portarmi la testa di tuo figlio
sul piatto della tua saturazione:
troppe emicranie, ville, pance gonfie
non te ne puoi disfare
disfare così di un marito.
Ti strappi la pelle dalle unghie
e lui beato passa l’aspirapolvere
mentre quel mostro strilla
l’Ineducabile.
Ho portato fasce, cerotti e passeggini,
assomiglio anch’io a una madre normale,
a una moglie normale. Se ci somiglio io
cosa vuoi essere tu
stronza
meno uguale.



dal libro: Maratona, Milano, Cooperativa Scrittori, 1977.

Poesia n. 35


Tu che ridi
del mio Dio
omniassente ebetoide
mezzo calvo e mezzo albino
mezzo orecchino e catenella
all'uccello, con e senza
una rotella all'occhiello
del suo rotary, e in più
mister patou
tu, spauracchio d'efficienza
con la borsa del dottore
delle sette meraviglie
tu ragazzo spermicida
acqua-sapone, che sciacqui
la tua rabbia egualitaria
nel bidé, e lasci
uno sputo sullo specchio (e inorridisci
quando vedi
che lo appendo tra i cimeli)
tu fanciullo senza peli senza odori senza [voglia
di un colloquio a tu per tu con le mie [gambe
inequivocabili, tu amico
risentito e sprezzante
sulla porta sventolante
le tue credenziali intatte
e ronzano profezie
d'imminente slittamento culturale
e ancora preferenze sulle scale
la tua ultima bestemmia
al mio Dio
di velina ultrasensibile
che trepidante svolgo
per tornare ad onorare
al suo pallido e anemico
stivale, ai piagnistei
dell'ennesima sua crisi
di coscienza, porco dio seminaguai
caro dio di tolleranza e bronzo
tintinnante cupo al tocco
d'amuleto del dio-gonzo
che li faccia impallidire
e indietreggiare
e alla fine andare andare
Perentori cavalieri
tra i cimeli a protestare.





Ana Deus interpreta “cola-cola song” de Alberto Pimenta | Porto 1937

Alberto Pimenta com Alexandre O’Neill, Eugénio de Andrade, Miguel Torga, Pedro Tamen, Vasco Graça Moura e outros, em 1977.
https://poetria.pt

Pimenta foi leitor português em Heidelberg (Alemanha). Foi contratado pelo governo português em 1960 e despedido em 1963 por se opor ao regime fascista português e às políticas colonialistas em África. No entanto, ele não voltou para Portugal naquela época porque trabalhava na Universidade de Heidelberg. Lá permaneceu até regressar ao seu país em 1977, poucos anos depois da Revolução dos Cravos.





La politica della poesia

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Poesie scritte da poeti nel corso di un altro conflitto, quello che era stato avviato contro il mondo arabo, dove si avallava la centralità simbolica della guerra come epifenomeno dell’esclusione occidentale dell’Islam. Volti e personaggi sono cambiati, ma resta il fatto che il primo diritto che non si può e non si deve mai calpestare è il diritto alla vita. Diritto a una vita dignitosa rivendicato dai dissidenti di uno stato politico del primo mondo. Diritto alla vita che esigono gli abitanti del terzo mondo quando reclamano per se stessi di disporre del cibo necessario, un alloggio degno, l’esercizio del lavoro, il controllo delle materie prime e dei mezzi di produzione necessari per commercializzarle.


Le poesie non fermano la guerra | Dario Bellezza

Verrà forse il tempo delle gialle stelle sul petto;
oh Arabia, amatissima, salvami
ma dovrò identificarmi col tuo nemico
a te uguale nel culto del Dio Assoluto;
oh Arabia, hai ragione nel cacciarci,
nel cacciarmi, diverso, fiammante aedo -
sarò perseguitato - è l'unica
fine che merito, la persecuzione
le poesie mie, di tutti, non fermano la guerra,
mai più stampate
eccole lì che giacciono in un cassetto
prima del rogo terminale
di una carriera suicida. Forse
vado in mezzo ai delatori
e pagherò in collera divina!
oh Saddam, Saddam
abbi pietà del mondo
che vuole morire!
Le Coca Cola faranno il resto
nel deserto antico dei pozzi
isterici di Petral -
l'amore sarà perturbata tensione
in lattine vuote.
Così vedo
sparire tutto intorno a me -
abbasso le energie pesanti e leggere
viva la candela, il lume
che ci mostrava belli
al seme della corruzione.

dal libro: L'inconscio politico, 36 poesie su commissione, Castelvecchi, 1998.

Girogirotondo | Vivian Lamarque

Girogirotondo casca il mondo
casca la terra
si alza la Guerra.

La Guerra si alza
si sdraiano i vivi
si alzano i morti
i vivi diventano morti.

Come gioca la Guerra
oh guarda un bambino
sotto la terra.

dal libro: L'inconscio politico, 36 poesie su commissione, Castelvecchi, 1998.

Attorno a un tavolo | Nico Naldini

Preso tra gli artigli
dell'uccello Roc
il bambino steward
con la frangetta furente
come la cresta di un galletto
difendeva da solo
le virtù di un grande Impero.
E appena qualche mese prima
nel suk di Gerusalemme
il bambino Idris
mi aveva rincorso
lieve e insistente come un grillo
per mostrarmi le sue cianfrusaglie.
Ma adesso,
sediamoci anche noi
«attorno a un tavolo»
voi due bambini ed io
a discutere la fine del mondo.


dal libro: L'inconscio politico, 36 poesie su commissione, Castelvecchi, 1998.

Achtung! | Valentino Zeichen

I biblici tedeschi dell'Est
quali neofiti del surf
hanno atteso quarent'anni
la grande onda Perestrojka
per sorpassare il comunismo.
Benvenuti in Occidente!
ma siete giunti troppo tardi.
Il consumismo ha proletarizzato
la natura, degradandola, e se
un incantesimo non darà l'alt
alla proliferazione neoplastica
di merci superflue,
il mondo entrerà in agonia.
Allora verranno alla ribalta
nuove sventure storiche:
recessioni, disoccupazione, rivolte,
che daranno il cambio
alle sciagure dell'ambiente,
e al confronto, le rivoluzioni passate
appariranno come pacifiche fiere.
Visioni gratuite di catastrofi
imiteranno gli scenari
ammirati finora solo al riparo
dell'illusionismo cinematografico.

Essendo il Pci già celebre,
non sarebbe un controsenso
volergli cambiare nome
per farlo diventare
anonimo e indistinto?
e solo per vederlo in coda
all'indifferenziato quintetto
dei partiti che governano? Boh.

dal libro: L'inconscio politico, 36 poesie su commissione, Castelvecchi, 1998.

Fabio Franzin | Milano 1963

La voce di Franzin è la voce che canta l’esilio dal mondo e, con esso, dalla felicità. L’esilio rimanda a un’esperienza reale e storica e alla sua conversione che, per mezzo della parola poetica, la trasforma in pura metafora. All’interno di questo esilio c’è una prospettiva che è misura di realtà; una situazione concreta che si accetta o si rifiuta; e certe circostanze sulle quali si struttura la vita, immersa in una realtà e, per contro, in ciò che ne resta. Questi fattori rimandano sempre a ciò che resta dentro o fuori di questa realtà. È come se il suo autore si trovasse all’interno di cerchi concentrici che segnano un dentro e un fuori; un interno e un esterno, un qui e un lì, un ora o un mai. Uno stare e un essere; o un non stare o un non essere; o non voler essere.

Gabriela Iliescu



Quando ho letto l’articolo nel Gazzettino, / la tragedia che ti ha colpita, // una mattina di nebbia che
sembra / pioggia, il sei dicembre duemila / undici, mentre tutta l’Europa / è sotto scacco per un’economia
/ malata e senza cuore, mi sono collegato / ad internet per capire meglio, anche / io ho sgobbato vent’anni
alle presse, / so del sudore mischiato al calore, / i gas che intossicano, i tempi di produzione / da rispettare
per portare a casa un tozzo / di pane. Ho cliccato il tuo nome, su / google, e subito mi è apparsa / una
schermata di foto di una bella ragazza, in posa / sulle copertine delle riviste di moda. // Pensa al destino,
cara Gabriela: una tua omonima, una / nata nello stesso paese che vi ha / viste emigrare in cerca di
fortuna // fa la modella, sogno di ogni / ragazza, in questa epoca, ha il sorriso / stampato su poster e
pubblicità, lo / fa sbocciare sulle passerelle rosse, / davanti ai flash, dall’estetista // il tuo spento fra due
stampi / di ferro e gli scarti di plastica.



dal libro Fabrica e altre poesie, Borgomanero, Ladolfi editore, 2013

Fra i confini della vita





Questi strani giorni d’autunno, ora così caldi / e limpidi, ora così coperti e umidi, così nebbiosi.
//Un urlo il vento, ieri notte, e il buio frustare di fronde / contro le finestre appannate dell’ospedale.
// E i nidi, pensavo: se ce ne sono chi appronterà / un telone sotto gli alberi? E poi il primo notare /
che il giallo dei topinambur esploso lungo le sponde / del Livenza rima con quello delle foglie dei
pioppi / che ne costeggiano i suoi argini. Questi strani giorni / d’autunno e i fogli del calendario
che mi cadono / inzuppati dalle mani dicendo di un arrivo / e di un’altrettanto imminente partenza.
/ Con le stesse labbra con cui ho baciato la fronte / emaciata di mio padre ora ausculto questi /
quasi impercettibili sussulti, questi cari calcetti / appoggiandole sul ventre teso di mia moglie. //
Piovono foglie rosse ora, sulle lenzuola stropicciate, / lungo i candidi corridoi istoriati dal dolore.
// Adesso so, con la più assoluta e crudele delle certezze / che colui a cui devo la mia vita e colui / a
cui io la darò non riusciranno ad incontrarsi. / So che mio padre, nonostante tutto il suo bene, / non
mi permetterà di gioire appieno per la nascita / di mio figlio e so che la nascita di mio figlio / non
mi permetterà di piangere mio padre come merita. // Io sono qui, con una mano stretta / a cercare
di trattenere e l’altra / aperta nel gesto di accogliere, di cullare. // Non so con quale delle due sia
riuscito a scrivere queste parole.


dal libro Pare, Helvetia, Spinea, 2006.

Presepe. Dialetto



Quella benedetta buona voglia / che ti prende di allestire il presepe, / ogni anno, e ogni anno più ampio, /
più ricco; la cura, minuziosa, in ogni suo dettaglio, / la passione. Lì, accucciata / sui calcagni in un angolo
della sala, / tu, così malandata che, lo / capisco, sai? quanto ti dolgano / le ginocchia, poi, mentre ti
risollevi... // lì, a fermare il cielo stellato / con le puntine da disegno, nel muro, a sistemare / tutte le pecore
nel muschio... e il fuoco, / poi, con le luci intermittenti sotto / un batuffolo di carta delle arance... le cortecce
/ grinzose del rovere per il tetto, le stradine di ghiaino, / il pozzo, l’acqua che scorre in un letto / di stagnola,
e lui, il Gesù bambino, / con le braccine aperte, fra la paglia / e un nido di bastoncini incrociati... // per i
nipotini, lo so, capisco... // ma tu non capisci che non è più tempo / che non c’è più sacralità, che io non ho
più tempo per andare / a raccogliere il muschio che ti serve, / che non so neppure dove andare a cercarlo,
poi!... / e che non ci credono più, i bambini: è più / il disastro che combinano... che poi / sbuffi, a riattaccare
con il nastro adesivo / la carta che strappano per toccare le stelle / con le dita, a togliere dal muschio / i
sassolini delle stradine sparpagliate, / a mettere in piedi statuine ribaltate... / che mi verrebbe quasi voglia
di dirti / basta, mamma, lasciala perdere questa poesia, / sacra; e guarda i nostri paesi, piuttosto //
guardali! che sarebbe da riempire tutto il muschio / (muschio che quest’anno ho persino visto / fra gli
scaffali dell’Ipercoop; che era / in vendita, capisci? vendono anche quello / ormai! che sarebbe da
disseminarlo, / quel muschio, di scatole di scarpe / e di quelle delle tue medicine, delle mie sigarette, / così, a
figurare questi distretti di capannoni industriali, di Centri / Commerciali, che sono, ormai, il reale
paesaggio / che i tuoi nipotini vivono, conoscono... il tubo della carta / igienica per mimare ciminiere... i Re
Magi / farli arrivare su di una di quelle macchinine di mio figlio: / al modellino di un fuoristrada, di una
Bmw, / di una Mercedes, altro che cammelli... / che Gesù bambino non appare in tivù, / non va ai reality, ai
talk-show, e quindi non esiste, / capisci? non è un vip, non è più nessuno... // Guardaci, mamma: siamo qui,
io e te, tu con le tue / statuine, il muschio, io con le mie povere parole, / con il dialetto; guardaci: cerchiamo,
strenuamente, di trattenere / a noi un mondo che si allontana a una velocità / impressionante, avvolgendolo
di valori, di sentimenti, / popolandolo di erba e pastori, di storie / che odorano di fieno, di muffa. Siamo
proprio ridicoli! // però, ascoltami, mamma: andrò a raccogliere / il tuo muschio anche il prossimo anno, te
lo prometto // continuerò a raccogliere parole / vecchie, ogni giorno, per la mia poesia, per il presepe / e per
i nipotini che arriveranno anche a me...




dal libro Mus.cio e roe (Muschio e spine), Milano, Le voci della luna 2007.