Notizie esaurienti riguardanti la sua biografia non sono facilmente reperibili. Negli anni Settanta dello scorso secolo, poeti quali Giancarlo Majorino, Carlo Porta e Giovanni Raboni, avevano saputo apprezzare le doti di rara bellezza presenti nella sua poesia. Il linguaggio incalzante con il quale si presenta nella raccolta di poesie Maratona, Cooperativa Scrittori, Roma, 1977, è solo una dimostrazione della carica dirompente di questa poetessa che ha sconcertato le contrade del gusto italico. L’espressività pressante dei suoi versi costituiscono un fluido amalgama in grado di alternarsi fra acrimonie verbali ed esaltazioni espressionistiche, i cui vincoli fanno da eco nel terreno scontroso del proprio vissuto umano (di donna) e su quello metafisico. Insomma, si è davanti a una poetessa che ha preferito restare sé stessa, piuttosto che inseguire le mode del momento.
Poesia n.18
Epistolario
Stai seduta sul gabinetto
con la tua garza indiana
mentre bevi la polvere del vomito
della donna gravida.
Col piede scosti il vaso dove
ha passato delle ore il bambino a cagare
aveva un anno, ma tu su questo non cedevi
bianco rosso e di tutti i colori ma tu
aspettavi che tornasse roseo
solo dopo aver finito. Basta, adesso ha una tata
comoda e neutra, quasi sempre neutrale,
e tu hai un’amica, e io
forse ho te, mentre ti faccio gli impacchi
d’aceto
e tuo marito ti coccola.
Dici che ti ha spaccato
la fronte col bicchiere:
dici che di qui non te ne vuoi andare.
Dici che quell’impiego mezza giornata
è una truffa: lo vuoi lasciare.
Tuo marito sa cucinare, è un gran maître,
era il tuo barman, tu
disponevi piatti allegri
in quell’inferno di acciaio e smalto blu.
Calcolatrici Honeywell, cieli cibernetici
tu contabile in qualche
ufficio col parquet.
Ma la nostra casa ha le scale
mobili; lui ti tiene qua.
Tutto elettrico, il gas non ce n’è:
niente maniglie alle porte, al massimo
lo sbrego pietoso di un bicchiere.
Senti i passi del vicino
disturbatore, che una volta il 113 ha chiamato.
Tu mai: il maritino
vuole cucirti il taglio, e gentilmente
si ripulisce le ferite col limone.
Tutto avviene in silenzio, da te:
io urlavo, urlavo, tu mi davi consigli. Tuo figlio
è uno schifo: piscia e frigna
mai che sorrida, quanti anni
di giochi didattici arretrati.
Hai ceduto, cogliona, questo è il prezzo
di saper aspettare
io ho saputo aspettare fin qua.
Mi sembrava finta la tua preparazione,
non mi sbagliavo: non era una vera vocazione.
Piantala di guardarmi
con gli occhi allucinati: vuoi che t’insegni
come si fa a esser sola, isterica, ninfomane
e parzialmente frigida? In due parole, insomma
una specialità?
Mi dispiace, troppo tardi,
da te non posso più imparare
ma da me tu niente.
Complicità del mestruo, roba vecchia
visciolo canale
che conosco quelle cose.
Malgrado tutto, cara
lui è ancora il più abile ad aggiustare.
Non portarmi la testa di tuo figlio
sul piatto della tua saturazione:
troppe emicranie, ville, pance gonfie
non te ne puoi disfare
disfare così di un marito.
Ti strappi la pelle dalle unghie
e lui beato passa l’aspirapolvere
mentre quel mostro strilla
l’Ineducabile.
Ho portato fasce, cerotti e passeggini,
assomiglio anch’io a una madre normale,
a una moglie normale. Se ci somiglio io
cosa vuoi essere tu
stronza
meno uguale.
dal libro: Maratona, Milano, Cooperativa Scrittori, 1977.
Poesia n. 35
Tu che ridi
del mio Dio
omniassente ebetoide
mezzo calvo e mezzo albino
mezzo orecchino e catenella
all'uccello, con e senza
una rotella all'occhiello
del suo rotary, e in più
mister patou
tu, spauracchio d'efficienza
con la borsa del dottore
delle sette meraviglie
tu ragazzo spermicida
acqua-sapone, che sciacqui
la tua rabbia egualitaria
nel bidé, e lasci
uno sputo sullo specchio (e inorridisci
quando vedi
che lo appendo tra i cimeli)
tu fanciullo senza peli senza odori senza [voglia
di un colloquio a tu per tu con le mie [gambe
inequivocabili, tu amico
risentito e sprezzante
sulla porta sventolante
le tue credenziali intatte
e ronzano profezie
d'imminente slittamento culturale
e ancora preferenze sulle scale
la tua ultima bestemmia
al mio Dio
di velina ultrasensibile
che trepidante svolgo
per tornare ad onorare
al suo pallido e anemico
stivale, ai piagnistei
dell'ennesima sua crisi
di coscienza, porco dio seminaguai
caro dio di tolleranza e bronzo
tintinnante cupo al tocco
d'amuleto del dio-gonzo
che li faccia impallidire
e indietreggiare
e alla fine andare andare
Perentori cavalieri
tra i cimeli a protestare.