UN PASTORE POETA | Berardino Perilli

Crediti: Fotogramma tratto dal documentario «Un pastore poeta», https://vimeo.com/190539261

A Campotosto (AQ) l’inverno si avvicina. Nel vento gelido dell’altopiano, il vecchio pastore Berardino Perilli si attarda con i suoi animali prima della transumanza verso la campagna ternana. Berardino ama Dante Alighieri e Matteo Maria Boiardo, legge l’Orlando Furioso e la Gerusalemme liberata, gioca con le parole:
è un poeta pastore dell’Italia centrale.

Dalla serie “La memoria lunga” Vol.1. Italia, 2016. 10′ 26”.

Fotografia, montaggio, regia: Stefano Saverioni
Ricerca e interviste: Gianfranco Spitilli
Musiche originali: Emiliano Dante
Prodotto da Co.Re.Com. Abruzzo
Realizzazione: Associazione culturale Bambun per la ricerca demoetnoantropologica e visuale

Sinossi


A Campotosto (Aq) l’inverno si avvicina.
Nel vento gelido dell’altopiano, il vecchio pastore Berardino Perilli si attarda con i suoi animali prima della transumanza verso la campagna ternana.
Berardino ama Dante Alighieri e Matteo Maria Boiardo, legge l’Orlando Furioso e la Gerusalemme Liberata, gioca con le parole: è un poeta pastore dell’Italia centrale.
Gli eredi di questa cultura si incontrano nei raduni e nelle serate conviviali, parlano fra loro con la poesia, gareggiano con ottave rime estemporanee. È un modo intenso di comunicare e di scherzare assieme, di scambiare opinioni, di intessere relazioni e amicizie.

Il format “La memoria lunga. Eredità culturali d’Abruzzo” prodotto dal Co.Re.Com. Abruzzo è pensato come strumento per favorire la conoscenza del patrimonio culturale del territorio montano e rurale d’Abruzzo. La memoria lunga nasce dalla confluenza di ricerca antropologica e cinema documentario, di indagine sul campo, relazione umana e tecnologia audiovisiva, dall’unione di testimonianze, documentazioni di attività, di vita quotidiana, di ambiente e paesaggio.
La scelta micro-tematica ha permesso l’approfondimento su scala ridotta, l’apertura di un punto di osservazione ravvicinato sopra un particolare aspetto di un fenomeno, lasciandone la narrazione agli stessi interpreti e protagonisti.
Ideate e realizzate dal regista Stefano Saverioni e dall’antropologo Gianfranco Spitilli dell’Associazione culturale Bambun, le sei puntate della prima serie (a breve online) raccontano aspetti poco noti del vasto patrimonio culturale materiale e immateriale della provincia di Teramo e in parte della provincia dell’Aquila, con un taglio autoriale che cerca di coniugare la narrazione divulgativa e la profondità di osservazione.

(dalla pagina di Vimeo | https://vimeo.com/190539261)

ANTONIO BECCADELLI (Il Panormita)

Palermo 1394 – Napoli 1471

     Il lessico erotico istituisce una complicità intima ed esclusiva del rapporto con l’amante, ma si può presentare anche sotto forma di pettegolezzo, insinuazione e scherno. Nei versi del palermitano Antonio Beccadelli si osservano tutte queste manifestazioni del rapporto tra un uomo e una donna, ma non solo. Questa complicità composta di metafore e di iperboli si appoggia più che sulle mediocrità, sulle miserie e sull’insoddisfazione. Compito arduo ma allo stesso tempo affascinante fu l'arte del Quattrocento e del Cinquecento, che ancora una volta rappresentò l'esperienza di tutti gli aspetti fondamentali della vita umana senza le esitazioni morali del Medioevo: perché essenzialmente la poesia e la letteratura aiutano a creare sulla pagina una realtà che non è né vera né falsa (come diceva Aristotele), ma capace di catturare la nostra immaginazione e di proiettarci empaticamente nella finzione, facendoci vivere una vita e un mondo ben diversi da quello reale.
     La maestria con la quale il «Panormita» infonde alla parola quell’afflato creatore, tale da ridestare il desiderio sopito dalla consuetudine, fa sì che l’osceno metaforizzi la fondamentale banalità dell’amplesso pur nella consapevolezza della sua non accettazione nei canoni del decoro morale, tanto più di quello letterario. Personaggi autorevoli dell'epoca come Bernardino da Siena, non ammisero il valore della laicità nell'individuo concreto, alle prese con gli aspetti più intimi della propria esistenza. Questo fatto spinse al frate francescano a mettere al rogo sulla pubblica piazza il testo del Beccadelli, accusandolo d'immoralità, al punto di scagliare alle fiamme persino un ritratto sostitutivo dell'autore. 
     In una sempre rinnovata poetica creatrice, il linguaggio erotico presente nell’Ermafrodito trae gusto nel colorire e arricchisce l’espressione in modo da coinvolgere l’ascoltatore nel gioco ambiguo della complicità, di stimolare in lui l’eccitazione, la meraviglia e l’ilarità cameratesca. Compito dell'arte è narrare la vita umana in modo laico, senza moralismi, altrimenti ucciderebbe la sincerità.

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dal libro: Il Panormita, Ermafrodito (a cura di Nicola Gardini), Torino, Einaudi, 2017.

V.
Su Orsa che monta


Per essere scopata Orsa monta Priapo:
   io faccio la sua parte, lei la mia.
Se vuoi che ti sostenga,  muovi, Orsa, chiappa e coscia
   più piano, o il cazzo non reggerà il peso.
Poi bada a non cacciartelo di nuovo dentro il culo:
   per quanto ti, Orsa, voglia, al cazzo basta.









XIII.
Contro Lentulo, finocchio altolocato,
uomo di viziosa bassezza


Per te ti tieni i soldi, Lentulo, e per te i libri,
   per te i bei giovinetti, per te i manti,
per te ti tieni il genio, per te il cuore e gli amici.
   Tutto per te ti tieni, tranne questo:
il culo, quello no, Lentulo, non ti tieni
   per te ma a tutti l'offri, finocchione.









XX.
Contro le critiche d'Oddo


Oddo sostiene che la mia vita è impudica:
   il fesso giudica me dai miei scritti.
Di certo non ha letto gli amori di Catullo,
   neppure ha visto te in tiro, Priapo,
Quel che ai Marchi, che ai Marsi s'addiceva e ai Pedoni,
   insomma a tutti, a me sarebbe macchia?
Tu lasciami sbagliare con simili poeti,
   Oddo, e credi con gli altri quel che vuoi!









XXIV.
Epitaffio d'Orietta senese,
fanciulla bellissima e castigatissima


Ora che giace Orietta nel marmo del sepolcro,
   vedo che anche il divino può morire.
Per virtù e per bellezza non fu diversa dai
   celesti, della Siena sua gran gloria.
Ah, che nessuno può strappare all'inclemente
   morte bontà né ineguagliato aspetto!
Ma se virtù splendente può trasformare in dio
   corpo mortale e ai puri è   aperto il cielo,
non dubito, purché torto non neghi il giusto,
   che la fanciulla a Giove tolga  il trono.










XXXVI.
Contro il pederasta Mattia Lupi


Lupi, mentre infilzava l'efebo ignorantello,
   disse: «Fa' andare i glutei, mia dolcezza»
E l'altro: «Certo. I che»...? Cioè,  precisamente...»
   Lupi: «Muoviti! Chiaro? Vai di culo»

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VII.
Ad Aurispa. Sulla fica d'Orsa


Maestro, dimmi come far sì che le  mie palle
   l'immensa fica d'Orsa non s'inghiotta.
Come far sì che il coso non m'aspiri completo
   la sanguisuga, sù sù fino al ventre?
Aurispa, o la restringi con non so quale mezzo
   o devo in tanta fica naufragare.









VIII.
La risposta d'Aurispa


Se lezzo soffocante dall'onde sempre spira
   che nessun naso più sopporti il  lido,
qual  marinaio mai potrebbe naufragare
   nel mar Tirreno o Scitico o Adriatico?
Tu non temere: appena per Orsa ti vien duro,
   la voglia te  la  fa   passare il tanfo.
Quel buco puzza tanto che una carogna gonfia
   rispetto al buco d'Orsa è fresco giglio.
Puzza tanto che se compari merda e fica
   la cloaca viole pare e rose.
Ma se siffatto odore sa reggere il tuo naso,
   t'insegno come stringerle la fregna.

Eduardo Galeano 1940 – 2015

Os ninguéns

Créditos: https://www.avvenire.it

Eduardo foi editor-chefe do semanário “Marcha” de Uruguai e diretor do jornal “Época”. Em 1973, fundou a revista Crisis em Buenos Aires. Ele foi exilado na Argentina, Venezuela e na Espanha. No início de 1985, voltou ao Uruguai. O pensamento do escritor foi sempre rigoroso e crítico, e seu compromisso político foi plenamente expresso em sua vida e visível em seus escritos, como Las venas abiertas de América Latina ou Memoria del Fuego.

El libro de los abrazos é talvez uma das sínteses mais perfeitas que Galeano poderia ter imaginado. A heterogeneidade das histórias que nos conta no livro se deve à variedade de situações e experiências que ele narra, ora na primeira, ora na terceira pessoa; a maioria são anedotas que lhe foram muito próximas, relacionadas com o impulso de quem as vive com verdadeiro entusiasmo: festas, acontecimentos, crônicas, sonhos, lembranças e esquecimentos. Tudo isso conseguido com histórias curtas, diretas e tocantes.

da página de youtube de Nepomuceno Filmes: “Os ninguéns” (O livro dos abraços).


Los nadies



Sueñan las pulgas con comprarse un perro y sueñan
los nadies con salir de pobres, que algún mágico día
llueva de pronto la buena suerte, que llueva a cántaros
la buena suerte; pero la buena suerte no llueve ayer, ni
hoy, ni mañana, ni nunca, ni en lloviznita cae del cielo
la buena suerte, por mucho que los nadies la llamen y
aunque les pique la mano izquierda, o se levanten con el
pie derecho, o empiecen el año cambiando de escoba.
Los nadies: los hijos de nadie, los dueños de nada.
Los nadies: los ningunos, los ninguneados, corriendo la
liebre, muriendo la vida, jodidos, rejodidos.
Que no son, aunque sean.
Que no hablan idiomas, sino dialectos.
Que no profesan religiones, sino supersticiones.
Que no hacen arte, sino artesanía.
Que no practican cultura, sino folklore.
Que no son seres humanos, sino recursos humanos.
Que no tienen cara, sino brazos.
Que no tienen nombre, sino número.
Que no figuran en la historia universal, sino en la
crónica roja de la prensa local.
Los nadies, que cuestan menos que la bala que los
mata.

ALI LAMEDA | Carora 1923 – 1995

Alí Lameda, el viajero enlutado, este año celebra su aniversario

Créditos: https://elcaroreno.com

En el siguiente vídeo, el Dr. Juandemaro Querales recuerda al poeta venezolano Alí Lameda (del cual ya nos hemos ocupado en estas páginas) por motivo de su 100 aniversario que se celebra este año (2023). Además, el Dr. Querales en su conversación rememora a otro poeta, también él venezolano, considerado uno de los exponentes más destacados de la poesía en lengua española de la generación de los años ’60 en Venezuela: Rafael Cadenas.

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RAFAEL CADENAS | Barquisimeto 1930

Créditos: De Guillermo Ramos Flamerich – Trabajo propio, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=42530869

Derrota


Yo que no he tenido nunca un oficio
que ante todo competidor me he sentido débil
que perdí los mejores títulos para la vida
que apenas llego a un sitio ya quiero irme (creyendo que mudarme
                                                                                                  es una solución)
que he sido negado anticipatamente y ayudado de manera 
                                             humillante y escarnecido por los más aptos

que me arrimo a las paredes para no caer del todo
que soy objeto de risa para mí mismo
que creí que mi padre era eterno
que he sido humillado por profesores de literatura
que un día pregunté en qué podía ayudar y la respuesta fue una
                                                                                                           risotada
que no podré nunca formar un hogar, ni ser brillante, ni triunfar
                                                                                                          en la vida
que he sido abandonado por muchas personas porque casi no hablo

que tengo vergüenza por actos que no he cometido
que poco me ha faltado para echar a correr por la calle
que he perdido un centro que nunca tuve
que me he vuelto el hazmerreír de mucha gente por vivir en
                                                                                                    el limbo
pues no encontraré nunca quien me soporte
que fui preterido en aras de personas más miserables que yo
que seguiré toda la vida así y que el año entrante seré muchas
                                      veces más burlado en mi ridícula ambición
que estoy cansado de recibir consejos de otros más aletargados
que yo («Ud. es muy quedado, avíspese, despierte»)
que nunca podré viajar a la India
que he recibido favores sin dar nada en cambio
que ando por la ciudad de un lado a otro como una pluma
que me dejo llevar por los otros
que no tengo personalidad ni quiero tenerla
que todo el día tapo mi rebelión
que no me he ido a las guerrillas
que no he hecho nada por mi pueblo
que no soy de las FALN y me desespero por todas estas cosas y
                              por otras cuya enumeración sería interminable

que no puedo salir de mi prisión
que he sido dado de baja en todas partes por inútil
que en realidad no he podido casarme ni ir a París ni tener un
                                                                                                   día sereno
que me niego a reconocer los hechos
que siempre babeo sobre mi historia

que soy imbècil y más que imbécil de nacimiento
que perdí el hilo del discurso que se ejecutaba en mí y no he
                                                                              podido encontrarlo
que no lloro cuando siento deseos de hacerlo
que llego tarde a todo

que he sido arruinado por tantas marchas y contramarchas
que ansío la inmovilidad perfecta y la prisa impecable
que no soy lo que soy ni lo que no soy
que a pesar de todo tengo un orgullo satánico aunque a ciertas
             horas haya sido humilde hasta igualarme a las piedras

que he vivido quince años en el mismo círculo
que me creí predestinado para algo fuera de lo común y nada
                                                                                                 he logrado
que nunca usaré corbata
que no encuentro mi cuerpo
que he percibido por relámpagos mi falsedad y no he podido
    derribarme, barrer todo y crear de mi indolencia, mi flota-
    ción, mi extravío una frescura nueva, y obstinadamente me
    suicido al alcance de la mano
me levantaré del suelo más ridículo todavía para seguir burlán-
    dome de los otros y de mí hasta el día del juicio final.


Rafael Cadenas, in Jole Tognelli, Gianni Toti (a cura di), “Poesia contemporanea del Venezuela”, in  Galleria, rassegna bimestrale di cultura, nn.5-6 Caltanissetta – Roma, Salvatore Sciascia Editore, Settembre-Dicembre 1965.

Fracaso


Cuanto he tomado por victoria es sólo humo.

Fracaso, lenguaje del fondo, pista de otro espacio más
    exigente, difíil de entreleer es su letra.

Cuando ponías tu marca en mi frente, jamás pensé en el
   mensaje que traías, más precioso que todos los triun-
   fos.

Tu llameante rostro me ha perseguido y yo no supe que era
   para salvarme.

Por mi bien me has regalado a los rincones, me negaste fáci-
   les éxitos, me has quitado salidas.

Era a mí a quien querías defender no otorgándome bri-
   llo.

De puro amor por mí has manejado el vacío que tantas
   noches me ha hecho hablar afiebrado a una ausente.

Por protegerme cediste el paso a otros, has hecho que una
   mujer prefiera a alguien más resuelto, me desplazaste de
   oficios suicidas.
Tú siempre has venido al quite.

Sí, tu cuerpo llagado, escupido, odioso, me ha recibido en
   mi más pura forma para entregarme a la nitidez del
desierto.

Por locura te maldije, te he maltratado, blasfemé con-
   tra ti.

Tú no existes.

Has sido inventado por la delirante soberbia.

Cuánto te debo!

Me levantaste a un nuevo rango limpiándome con una
   esponja áspera, lanzándome a mi verdadero campo
   de batalla, cediéndome las armas que el triunfo aban-
   dona.

Me has conducido de la mano a la única agua que me 
   refleja.

Por ti yo no conozco la angustia de representar un papel,
   mantenerme a la fuerza en un escalón, trepar con esfuer-
   zos propios, reñir por jerarquías, inflarme hasta reventar.
Me has hecho humilde, silencioso y rebelde.

Yo no te canto por lo que eres, sino por lo que no me
   has dejado ser. Por no darme otra vida. Por haberme
   ceñido.

Me has brindado sólo desnudez.

Cierto que me enseñaste con dureza ¡y tú mismo traías el
   cauterio!, pero también me diste la alegría de no
   temerte.

Gracias por quitarme espesor a cambio de una letra
   gruesa.

Gracias a ti que me has privado de hinchazones.
Gracias por la riqueza a que me has obligado.

Gracias por construir con barro mi morada.

Gracias por apartarme.
Gracias.



Rafael Cadenas, in Gina Saraceni (a cura di), Un’isola e altre poesie, Roma, Edizioni Ponte Sisto, 2007.

Hirondina Juliana Francisco Joshua |

Moçambique 1987

Hirondina Joshua é uma escritora moçambicana. Poeta proeminente da nova geração de autores moçambicanos. Participou em várias antologias nacionais e estrangeiras e os seus textos foram publicados em jornais e revistas em Moçambique, Portugal, Angola, Galiza e Brasil.

Prelúdio


Como é que se escreve um olhar?
E um devaneio, sabes?
Para quê é preciso um coração? E uma alma o que é?
Diz-me se sabes a cor do vento.
A paixão com que o mar nos prende.
Diz-me e por favor não poetizes nem filosofes.

Ausência


Falta-me o universo
Para imaginar a cor,
A artéria plural
Do sangue
Que redesenha o sonho.

Invenção


De súbito,
o desejo despeja-se
no corpo inventado,
há uma contemplação invisível.
É momento de luz:
Uma mão pronuncia a voz do interior
E outra subjacente vagueia
No ar procurando o dom do amor.

Luis Fernando López Noriega

En la biografía on line de este joven escritor colombiano se puede leer:

«Luis Fernando López Noriega es doctor en Letras en la Universidad Nacional de Córdoba, Argentina. Profesional en Lingüística y Literatura. Realizó estudios de análisis del discurso y en Literatura Hispanoamericana. Profesor de literatura Latinoamericana en la Universidad de Córdoba-Colombia. Miembro del Grupo de Investigación de Memoria Histórica de la Universidad de Córdoba. Ha publicado diversos artículos que exponen los resultados de sus investigaciones sobre la novela colombiana en revistas especializadas como Poligramas, de la Universidad del Valle, y Cuadernos de Literatura Hispanoamericana, de la Universidad del Atlántico. Publicó un libro de investigación sobre la novela en el Caribe colombiano después de García Márquez: Calibán y Afrodita, la novela en el Caribe colombiano después de la modernidad. Zenú editores, Montería 2013. Ganador del Premio Nacional de Cultura en la línea de Narrativas de Vida del Centro Nacional de Memoria Histórica, Bogotá, 2011.»

La riqueza y pluralidad de la producción literaria del Caribe hispanohablante del nuevo milenio es el resultado de las dinámicas internas que la han forjando. Lo que une a autores tan diferentes es el contexto histórico en el que nacieron, se educaron y comenzaron a escribir y publicar. Todos ellos han crecido en un mundo y en un continente que han experimentado profundos cambios y en los que se han modificado los valores, las referencias, los hábitos de vida y de pensamiento que correspondían a sus respectivas culturas desde hace muchísimo tiempo. Algunas tendencias de la nueva narrativa que se asientan, por ejemplo, en la indagación del yo y su entorno, en la exploración de la memoria colectiva, en la fantasía o en el juego estético, exhiben como rasgo distintivo la existencia de una extraterritorialidad atravesada por fronteras identitarias y geográficas que intentan redefinirse a través de las distintas formas de la memoria, la crónica, o la autobiografía en las que un narrador o personaje interpreta la condición de distanciamiento o de quiebre con la historia pasada. Estos factores permiten establecer de alguna manera una divergencia de la época presente y las décadas anteriores del siglo XX, conllevando a una proceso de desmistificación de los discursos oficiales sobre algunos de los mitos fundacionales, así como a la fusión de lo que otrora fue la alta cultura con la cultura popular. Si bien las fronteras mentales y los imaginarios de los narradores siguen estando vigentes, sin embargo, estos se ven afectados por los procesos de globalización y, por consiguiente, han tenido que operar dentro de la lógica global, la cual exige reformular las nociones del pasado a la luz de los problemas y las situaciones actuales.

En el espacio híbrido de la frontera (Colombia – Argentina) en el que se mueve el personaje principal (Kaloomba) en el relato de Luis Fernando López Noriega: Kaloomba y Dios, se observa un universo que escenifica muchos de los cambios sobrevenidos en los últimos tiempos, incluso la oscilación que se establece entre las diversas cartografías temporales que afectan al imaginario individual y colectivo. Esto permite al narrador moverse libremente, repasando por la Historia cultural y social de las dos naciones en una suerte de presente continuo. Las ciudades en las que se articula la trama de Kaloomba y Dios son el reflejo de la marginación impuesta por Occidente al continente latinoamericano. Entretanto, estas se han ido despojando de un cierto anacronismo cultural, tal y como lo había concebido la historia y la estética del siglo pasado, para incorporarse en el proceso de desarticulación de los moldes tradicionales que enfrentan sus habitantes. Un proceso en constante construcción/deconstrucción que transforma a las ciudades en un espacio más híbrido que las identificaciones y las fronteras y en las que, por momentos, sus pobladores experimentan un cierto sentimiento de pertenencia y de sentido a los vínculos…

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KALOOMBA Y DIOS


En su casa no hay sitio para ocupar con tanta letra, con tanta fotografía, con tanta columna de opinión, con tanta historieta, con tanta moda, con tanto papel, con tanto color… Los rimeros de diarios y revistas forman gigantescas sombras detrás de las puertas, detrás de las ventanas. Para entrar se debe saber muy bien lo que se quiere, no sea que se pueda morir aplastado por una columna de Vogue o Cosmopolitan o revista Motor… es una casa ubicada en el centro de la ciudad, en realidad fea, asediada por los ruidos circundantes de autobuses y vendedores ambulantes. La gente viene aquí para resolver dilemas cotidianos: los que coleccionan modelos de grabados en yeso encuentran su lugar; los que desean conseguir el último número donde aparece la Ginger de Australia, enseñando las últimas posiciones para hacer el amor, se van para el rincón. Ya no se sabe quién es quién: si la casa se llama Kaloomba o es Kaloomba la que ha adquirido las dimensiones de la casa. Ella no se agobia por nada, ni siquiera se mortificó cuando hace varios años atrás fue expulsada de Zeus, o mejor cuando se enteró que Zeus iba a ser demolido.

Al despertar encuentra su gran tazón de café en el escritorio donde rectifica las listas de pedidos para el día. Kaloomba sabe que los clientes no tardan, que siempre llegan con prisa y queriendo lo último en publicación. Así que mantiene contactos rutinarios con distribuidores, coleccionistas, y no desprecia las buenas oportunidades con contrabandistas. Siempre ha sido así. En Zeus, aquel burdel–manzana fantástica con múltiples luces de colores en la puerta de doble hoja; aquel puteadero de puta madre, tan famoso en la ciudad hace tanto tiempo junto al río. Ella se respetaba como administradora, y cuando se le daba la gana, ocasionalmente con algún amigo que visitaba el lugar, como prostituta de la vieja guardia o dama de compañía… pero eso fue en el tiempo de la felicidad dilapidada a manos llenas entre ron y sonido de tambores, hasta que recibió la comunicación imperativa donde se le ordenaba la clausura del negocio por mensaje expreso del gobernador de turno. Ya conocía ella el carácter putañero de estos personajes: unas niñas para divertirse las noches que sean necesarias, trago fino para aceitarles la garganta por cuenta de la casa y todo lo que pidan de más. Así pensó solucionar el problema, (que no era la primera vez que recibía un mensaje con esas características de cumplimiento y «estricta obligatoriedad»). Pero todo fue en vano: «Sí, Kaloomba, no soy yo el que jode esta vez, tú bien sabes que me gusta Zeus. La vaina viene de más arriba». Fue la respuesta del gobernador. Así, Kaloomba sólo intuía el nombre de ese súper Dios capaz de destronar al mismísimo amo y señor de todo el Olimpo de burdeles de la ciudad. Lo cierto fue que ella no tardó en emprender todas las labores para cancelar el servicio: cerrar el lugar, revender los muebles del zaguán, pagarles a los meseros y a las niñas, clausurar las funciones de sexo en vivo de las doce. Sin embargo, si Kaloomba ejecutó tales actos sin pretensión alguna, sin echar ni una sola maldición al aire puesto que no tenía persona para maldecir, fue por la sencilla razón de que ya se le había ocurrido otra idea o tenía otro negocio entre manos: una de las cosas que más gustaba en Zeus, además del buen trato, era el pequeño vestíbulo que comunicaba hacia las habitaciones de la planta baja. En realidad no era un sitio adornado con gusto exquisito. Era una simple sala de piso en baldosín blanco, algunos enseres baratos y raídos por el uso, y un olor a cosas guardadas que podía desesperar. Pero justo ahí estaba la pequeña vitrina exhibiendo aquellas revistas tan gustosas de leer mientras se esperaba el turno para el sexar en privado: revistas no sólo porno–estrambóticas que incitaban la imaginación y levantaban el ánimo, sino también las historias de vaqueros de la colección «Colt 45» que tanto se peleaban los clientes más asiduos del burdel.

Así fue como empezó esta casa de letras, de papel, de cromos pegados a las paredes. Kaloomba, con los ahorros de su ocasional actividad prostibularia, viajó a la Argentina justo para contactarse con las distribuidoras de estas revistas de historias de amor en los jardines de una mansión casi derruida o el duelo de revólveres en el desierto, territorio de forajidos muy buscados (reward), vivos o muertos. Esta parte de su propia historia debería titularse «invierno en Buenos Aires». La labor consistió, en realidad, en visitar aquellas librerías de viejo del centro donde se podía encontrar noli turbare circulos meos en el sitio de una ciudad para enloquecer después de haber visto los números perdidos de colecciones que son verdaderas reliquias. Caminó Kaloomba por Florida a menudo entre el sueño o la ensoñación de un julio frío, aún en los sótanos de Corrientes, pensando en la frase que había leído en uno de esos laberintos: «Tiempos de labios de lima en rostros sucesivos tú te aguzas, te enfebreces…» Hasta que en medio de esa oscuridad leve mordieron su nalga izquierda mientras palpaba uno de los trece libros de «Elementos» de Euclides.

Al darse la vuelta, no sin antes lanzar un alarido que se ahogó en el muro frontal del sótano, se topó con un jayán que la observaba con detalle. Un hombre alto de largos brazos, rostro duro, pero mirada tierna vertida en unos ojos tan azules como el océano en sus profundidades aumentadas por los gruesos lentes. Kaloomba no supo qué hacer ni qué decir. La figura extraña venía siguiéndola desde hace varios días atrás, y simplemente ahora cayó en la cuenta de la misma manera en que ahora sentía lo que hace mucho tiempo no sentía: una aguda presión en la boca del estómago y unas ganas de vomitar sólo comparables con la especulación metafísica del amor… El jayán extendió su mano derecha para enseñarle un librito: el número más buscado de las historias de Jerry Spring, un cuento rebuscado en verdad que más valía por su significado alegórico que por la maestría literaria. Sin embargo, este fue el abrebocas de una larga charla entablada entre Kaloomba y el corpulento hombre. Ella no supo el nombre de él. Al parecer en las líneas y en las circunvoluciones en las cuales toda conversación entra o sale de temas que pueden versar sobre la voracidad sádica, el grito animal, o el mugido que unas fauces dentadas emiten a la hora de elaborar un verdadero bestiario citadino, bonaerense, aquel señor (que ahora sí era un «señor» y no un enfermo sexual que gustaba morder nalgas a mujeres desprevenidas) no mencionó su nombre. Pero era realmente todo un gesto de figura libresca. No sólo conocía las colecciones innombrables de relatos porno-circenses, sino también las más encumbradas ideas de la Terre et les Rêveries du repos y el enaltecido e inspirado poeta del ogro Cronos de Aune Sērēnité Crispēe. Kaloomba y el jayán (que ahora lo llamaría así por un convenio tácito), luego de más de dos horas de charla en el Roma restaurante, decidieron tomar el subte rumbo a Chacarita para conocer la tumba de un ruiseñor…

La ciudad adquiría un matiz cada vez más interesante, más íntimo: la Avenida Nueve de Julio, con el obelisco al fondo en forma fálica apuntando hacia el mismo centro del cielo, se enrojecía por una tarde casi en las horas de su muerte. El teatro Colón con sus columnas dóricas soportando el peso de un artesonado de figura enrevesada en el frontis opalino se encendía ahora de manera vistosa. Los transeúntes disminuían la marcha apresurada para internarse en las profundidades calurosas del tren subterráneo en Corrientes, y un gran silencio se cernía sobre todos los cuerpos metamorfoseados de la animalidad y la agitación a la calma del final de un día de trabajo.

Kaloomba pensó, mientras se balanceaba rítmicamente al son de la serpenteante máquina del tren que de momento en momento daba la impresión de estar a punto de desarmarse en estaciones pasajeras, que si el jayán lo quisiera podían tener sexo agresivo adoptando la posición más rápida pero no menos excitante: la del toro que penetra como el trueno. Entonces imaginó el miembro viril de ese hombre: «Amo del huracán», «Dios del cuerno», para luego darse cuenta de que él estaba pensando lo mismo… que ella se convertiría en la «Gran vaca», la vaca Hator, de sexo abultado, extendido, aterciopelado, pero de «bruñido azabache», gruta donde otra vez descansaría su espada, la espada mágica de artúricas dimensiones, potenciando todas las fuerzas malignas y benignas en esa posición tan gozosa y tan sabrosa que además, es menester pensarlo, conserva la naturaleza violenta, excitante, del sexo furtivo, del Poseidón manifestando a Fedra, o de Zeus unido a Antíope «tratando de violar a Demeter bajo la forma de un toro fogoso»… y entonces aquí el pensamiento de ella y de él se encuentran en un punto que culmina el trayecto de la imaginada libertad sexual o de la soltura pornográfica (simbólica obviamente) en el éxtasis que al igual que el tren llega a su clímax con un silbido o grito casi simiesco.

Ahora la ciudad se escondía tras un velo azulado oscuro de neblina que avanzaba lentamente sobre los edificios y sobre las tumbas del cementerio de Chacarita. El frío penetraba los huesos, clavaba sus estacas en las rodillas y en los nudillos de manos y pies. Kaloomba y el jayán se encontraban frente a la escultura del ruiseñor. Permanecieron ahí observando la figura, tiritando, chasqueando los dientes hasta que la luna asomó una de sus puntas después de atravesar una nube densa de humedad. Ya era demasiado tarde…

No supo nada más del jayán los días posteriores. En vano frecuentó los sitios que hicieron parte de una geografía del encuentro; pero esta vez, más bien, de la conciencia de la pérdida. Lo había hecho todo para propiciar, si es que el jayán en realidad lo que deseaba era no tener citas programadas o lugares en la ciudad muy frecuentados o cotidianos, un improvisado tropezón en la calle de la universidad, en Puán. Y ahí, sin embargo, cayó en la cuenta de lo estúpida que se veía a su edad madura buscando en definitiva a un amante efímero, cuando ella en los tiempos en que Zeus aún existía se daba el lujo de escoger al efebo de la noche que más le resultara atractivo. Además, ya había realizado los contactos con las distribuidoras de las revistas y era ésta su principal misión. También conoció los sitios más elogiados por su belleza. Así que ahora era tiempo de volver. Sin embargo, en su habitación del centro, en la mesita de noche, estaba aquel librito de aventuras del oeste que le regalara él aquella vez. Al abrirlo por casualidad mientras preparaba su maleta leyó la dedicatoria más extraña: no convenían estas palabras con la idea que tenía de esos amores tipo historias «Bianca» o «Jazmín» en las cuales las lejanías se lloraban o se resolvían en conmovedoras acciones de valor. «Nos volveremos a encontrar cualquier día, querida Kaloomba, para perdernos otra vez… JULIO C».

Pensó ella que todo al fin y al cabo parecía planeado por el destino. El destino que es importante justo en el momento de apretar el gatillo y atinar. El destino que es esencial a la hora de montar el caballo y contar con suerte para pasar la frontera sin ser visto por los alguaciles. El destino que destinaba a un forajido a la horca. Así que Kaloomba guardó aquel librito de las aventuras de Jerry Spring y aún hoy lo atesora y lo lee y lo relee como si fuera la Biblia cada instante en que se siente perdida o asediada por algún problema que al final deja resolverse solamente por la mano indescifrable e inefable de ese Dios sin forma, sin rostro.

Y sin embargo, ahí mismo, en el lugar de su perdición, no dudó en preguntarse con la perplejidad y a la vez el anhelo de un mortal : ¿Pero cuánta fe se necesita para cabalgar sobre este Dios…?