POESIA ARABA DELL’ AL-ANDALUS: IBN ZAYDÜN

La poesia araba dell’Al-Andalus ha conosciuto un periodo di splendore intellettuale senza pari, il quale è stato confermato nel corso degli anni dagli studi filologici che si sono dedicati a riscoprire quel periodo storico della dominazione araba in Spagna. Nella penisola iberica di allora si ha una produzione lirica straordinaria che in parte prende gli stilemi della tradizione della poesia araba classica, in parte evolve verso una produzione con venature lessicali romanze, come accadde al poeta “cordobés” Ibn Zaydün (1003 – 1071). La critica letteraria araba lo considera come un poeta neoclassico per cui fu soprannominato il «Buhturī d’Occidente», in omaggio al poeta arabo al-Bùḥturī (m. 897), nato in Siria e vissuto alla corte dei califfi abbasidi di Baghdād. Le liriche con le quali Ibn Zaydün ha maggiormente perpetrato la sua fama sono quelle di tono sentimentale amoroso, ma anche ha affrontato con maestria altri generi come quello filosofico e il panegirico. Per quanto riguarda quest’ultimo, compose elogi agli alti mandatari che conobbe in vita, a volte impiegando iperboli smisurate o paragoni un pò scontati, come era uso fare; compose anche elegie, in cui si mescolano note emotive con idee comuni, satire violente contro i suoi nemici.

dal libro: Liriche arabe di Spagna ( a cura di Luciano Lancioni), Salerno Editrice, Roma, 1993.

I


IN CARCERE

Non esiste, credo, l'irreparabile,
la sorte dilania e risana;
spesso per l'uomo è vicina
alla speranza la disperazione:
ti può salvare una negligenza. e rovinarti la circospezione.
I pericoli sono frecce.,
le cose decretate sono gli archi.
Quante volte è utile l'inazione
e dannosa una petulante insistenza..
Così è la sorte, quando
qualcuno è potente, qualcuno è umile,
i mortali sono di varie
sorti, nobili e vili.

Indossiamo il mondo, eppure
è un matrimonio a termine quest'abito.
Abû Hafş, non ti è pari
nell'intelletto neppure Iyâs,
dallo splendore della tua mente traggo
nelle tenebre delle cose conoscenza.

Il mio affetto per te è un testo chiaro
non spezzato da interpretazioni.

sono confuso: la faccenda
ha un lato chiaro e uno oscuro.
Non vedi, nel convito sono venuti
meno al patto e lo hanno violato?
Mi hanno trattato come samaritano
che non è lecito toccare.
Lupi bramano le mie carni:
sbranarle, farle a pezzi;
tutti chiedono del mio stato,
è proprio del lupo far la ronda.

Se la sorte è crudele, ebbene
l'acqua sorge impetuosa dalle rocce
e se ho passato la notte in prigione,
anche la pioggia talvolta è prigioniera.
Il leone coraggioso è immobile,
poi balza sulla preda.

Considera come vela l'occhio
della gloria la sonnolenza,
come il muschio è ridotto
in polvere, schiacciato e calpestato.

Il tuo impegno non sia rosa,
il mio verso di te è mirto.
Fa' girare il mio ricordo come coppa,
finché potrai tenere una coppa in mano,
afferra la gioia delle notti,
la vita non è che vanità.
Forse la sorte sarà benevola,
già a lungo è stata capricciosa.














ELEGIA IN MORTE DI IBN DHAKWÂN

Disse commemorando il giudice Abû Bakr Ibn Dhakwân:

Guarda come muta lo stato del nobile,
com'è precario il rango del principe.
Non dar spazio all'anima
al colmo dei desideri,
essere accecato dai desideri è traviante.
Che piacere le speranze, non fosse
che svaniscono i tempi
senza raggiungerle;
chi ha gioito in vita,
poca cosa è il suo piacere:
la vita è sonno, la gioia chimera.

Ogni giorno ti colpisce una disgrazia,
la terra ha dai suoi visceri un terremoto.
Se ieri è andato in pezzi un fulgido astro
oggi è svanita una nube piovosa:
l'annuncio della morte
a Jawhar e Muhammad
ha fatto pianger le nubi,
le lacrime assiepate.
Due forme simili, se il fato
è decretato, si attraggono,
non c'è meraviglia che si attraggano i simili.

Abû Bakr se n'è andato
ammirato dai mortali,
un terrore il cui cospetto
son nulla i territori.
Una luna è caduta sulla terra
da cui è stata ricoperta,
Do, non abbia il sopravvento
l'umida terra versata. 
Dico - si è detto che la lettiga
lo rendesse poca cosa -
forse è in potere della lettiga il considerar poco?
Ora la sua acomparsa ha reso chiaro alle menti
che anche per i monti il fine è scomparire.
Orribile il mondo!
Nonostante l'estremo saluto
di chi l'ha adornato,
cammina pomposo.

Tomba dalla terra odorosa, non si allontani
la dolcezza sincera dei giovani da te,
non sei altro che la cruna al cui interno
passa la freccia del candore dei giovani.
Vi si diffonde la fragranza
della natura, come
di notte cogli aromi
ei campi lo zefiro,
avvicinandosi ai begli animi, allontanandosi
da tutto quanto è riprovevole,
caratteri la cui bellezza
fa a gara con la rettitudine,
come l'aroma del vino
con il suo colore rosso.

O voi che siete fonte di proverbi, uno soltanto
è passato a proverbio di giustizia.
La tua vita è venuta a meno
quando la virtù era perfetta:
non chiede forse asilo
alla perfezione la perfezione?

Hai detto addio a una vita che hai vissuto breve
con altri nobili che avranno lunga vita.
Chi terrà il consiglio
quando i suoi membri litigano
e l'ignorante tratta
da ignorante il prudente?
Se tu li tenessi d'occhio,
cesserebbe la disputa,
al più stimato per virtù sarebbe gloria.

Chi reggerà le scienze?
È svanito il segno di cui
son marcate le loro specie neglette.
Chi terrà i giudizi, rafforzando in essi
la chiarificazione di un caso
oscuro o ambiguo?
Chi aiuterà l'orfano,
le cui calamità si son susseguite?
(Se n'è andato il padre pietoso,
è scomparsa la ricchezza).
Ti sia triste che malizioso
annuncio della tua morte
venga agli amici dal convito dei nemici.

VIII

NOTTE DI CONVEGNO



Passò la notte in un giardino di Siviglia dicendo:

Quante notti abbiamo passato a bere vino
fino al primo segno dell'aurora, 
le cui stelle si facevano strada nelle tenebre,
e fuggivano le stelle della notte sottomessa.
Abbiamo colto i piaceri più belli,
privi di preoccupazione,
non trattenuti da disturbo.
Se solo durasse, non avrebbe fine la mia gioia:
ma le notti d'amore sono sempre troppo brevi.

XII

SOFFERENZE D'AMANTE


Quando rivelarti quel ch'è in me,
mia croce e delizia?
Quando la lingua prenderà il posto -
per spiegartelo - della missiva?
Dio mi è testimone: a causa tua
mi sveglio nella motte per quel ch'è in me...
Non mi è gradevole il cibo,
non lieve al gusto il vino.

Tormento del miserabile,
argomento dell'innamorato,
tu sei il sole, celato
allo sguardo dal velo.

Della luna piena traspare
lo splendore dalle esili nubi
come il tuo volto, quando
sotto il velo risplende.

BERNARDO PINTO DE ALMEIDA | Paso da Régua 1954

Créditos: Wikimedia Commons, the free media repository

Neste último volume de poemas de Bernardo Pinto de Almeida, intitulado Sicília, a ambiguidade temporal da existência e as convulsões sociais e culturais que têm submetido os indivíduos ao longo dos séculos, constituem um traço de união que chega até ao nosso século.

Embora o autor nem sempre esteja confiante sobre o significado da experiência histórica, muitas das palavras de alguns poemas dizem respeito a atos concretos – a existência agora, a necessidade de conhecimento do existente – que por sua vez aludem a uma possibilidade de intervenção no mundo, não sem experimentar a decepção e o colapso de toda a esperança em direção a ela. A vulnerabilidade dos acontecimentos ou das pessoas, evocada assim como a dos objectos, é a fonte de uma maravilha que acaba por transcendê-los e transcender o próprio sujeito. Através da recuperação do mito, Almeida é acompanhado por um processo de transposição cronológica, onde tudo é contemporâneo. A principal função desta transposição é reiterar, através da sobreposição, a identificação do antigo com o moderno. O autor usa este dispositivo para assimilar e reproduzir temas, personagens, situações e sentimentos, para validade histórica e consciência poética à Sicília grega e o destino do homem de ontem e de hoje.

Frincha


                   At the end of my suffering
                   There was a door
                                    - Louise Glück



Procurei
escrever um
poema tão
estreito quanto
a frincha de
uma porta
entre
-aberta. Essa,
por onde
se vê, do
meio do escuro,
a luz que
banha, pela
mais exígua
réstia o
chão do
quarto. Deitado
sobre a cama,
o corpo mede em luz
o espaço em volta,
o seu
caminho estreito. A
mesma linha
que, recortada,
fere a sombra,
arrancando os objectos
da penumbra,
havia de 
dar-nos a
espessura exacta
do dizer. Contê
-lo
entre as
estreitas margens
que a voz
pede. Assim,
para que,
tocado dela,
se deixasse
surpreender, enfim
suspenso,
luminoso,
apenas esse
muito pouco:
o que realmente
importa.









Divórcio


Não haverá
maior estranhamento que
esse,
sentido diante
a um corpo
outrora amado,
conhecido até
aos ínfimos
defeitos e
agora posto
ao lado, ali
presente, todavia
esperando ainda
um gesto, carícia,
um aceno dos
dedos, ao menos
despedida. Mas
nada
move a mão que se retrai,
rejeita, desconhece
de repente,
toda a geografia
há pouco percorrida,
os rios, vales,
os sulcos altos,
paisagens
nele desenhadas
por ela, outrora
amante. Estranheza,
estranheza o
toque dessa
pele, cabelos
desalinhados sobre
uma almofada,
desenho irregular
dos lábios,
onde, alegres,
ante os beijos
se colheram,
o defeito a que
sempre se achou
graça, agora
incompreensível,
disforme,
premonitório
sinal da despedida. A
note tão só
espera, na
angústia do
que parte,
sob as frinchas
da janela
chegue a entrar
a réstia da
primeira luz
da ante
-manhã traga
enfim
consigo
alguma
paz, algum
silêncio, nascido
do contraste
com estrépito
que sobe desde
a rua. No
seu olhar,
apiedado, adivinha
-se, perplexo,
todo o
impedimento. O que
apenas a
tristeza reconhece,
mas já
nem as pétals
das lágrimas -
descendo
lentamente pelo
rosto – chegam
para reverter.

CONFEITARIA

                          em memória de António Fournier


Devíamos
nascer velhos -ítidas, em
contraste brusco
ao acidente dos joelhos
nus,
enquanto, absorta,
suspendias a m
pensei – depois
de ver esquecido,
sobre a curva
macia das tuas
pernas, na pele
arrepiada,
o caderno de linhas
nítidas, em
contraste brusco
ao acidente dos joelhos
nus,
enquanto, absorta,
suspendias a mão,
hesitando
escrever, dentro
da confeitaria. E -
pensei ainda -
devíamos talvez
ir sendo cada
vez mais
novos, como
se a descer
a triunfal escadaria -
aquela mesma
que Juvarra desenhou
para o Palazzo
madama em Turim -
até chegarmos
a una infância
qualquer. Acabar
no doce forro
interior de um
corpo materno,
casaco folgado
de sangue e
placenta e,
de aí voltar
ao cosmos. Talvez
assim – pensei -
pudesse cruzar
-te no tempo
como as pernas
se cruzam,
acenar-te de longe,
desde a montra,
entre a doçaria
sobre exposta, esperar
que, levantando os
olhos distraídos, me
sorrisses, acenando
de volta,
numa qualquer, inesperada
curva do tempo
assim de tal modo
redimido.












BALADA (DO GUARDA DE MUSEU, EM AGRIGENTO)


Eu,
que vivo
entre estátuas, 
gregas algumas,
romanas, etruscas,
egípcias outras,
e que contemplo
o tempo, os seus
objectos, formas,
a curva exacta
que desenhou
em cada coisa,
da pequena areada
terracota à lisura
fria mas sensual
da mármore, e
que, noite após
noite, de sala
em sla, de peça
em peça,, verifico
admirado essa
ppassagem – que
todavia os
conserva
numa esfera
de tempo, em tudo
paralela
àquela que
habitamos -
surpreendo-me
com a chegada
deste fim
dos tempos. Anunciada
porém, e desde
sempre, na presença
mútua das estátuas, dos
vestígios, nos
desenhos do tempo,
os mesmos que,
quando todos
juntos num espaço
próximo, contíguo,
permitem compreender
o nosso próprio
tempo. Aquele,
justo a nós,
aqu, agora,
parte apenas
desse outro tempo
imemorial, de
estátuas e objectos,
civilizações onde
outros se riram,
choraram, se amaram,
gurrearam, seduziram,
se entregaram à
contemplação do tempo,
e o interrogaram
tal como nós,
agora, o
interrogamos. E, perplexos,
entendemos que este é
já todo o tempo,
o único, o 
onexorável, em que
convergem, sem
conflito qualquer,
todos os demais
tempos
no único tempo
verdadeiro.

José Craveirinha | Moçambique 1922 – Johanesburgo 2003

Créditos: https://mbenga.co.mz/blog

A Marx se deve a observação pertinente de que os povos que escravizam outros se tornam escravos dos escravos. No caso de José Craveirinha, essa condição viveu-a em primeira mão. Filho de um modesto policial, que nunca obteve uma patente e morreu em um leito hospitalar, pobre como quando desembarcou na África, foi considerado um ‘assimilado’, pois mestiço. Para se ‘assimilar’ é preciso mostrar integridade moral e viver de acordo com o estilo de vida ocidental. A avaliação desses modos e comportamentos decidi-a a PIDE e a governadoria. E porque não havia escolas para o povo indígena, era muito difícil para ele ganhar os benefícios da cultura portuguesa. José Craveirinha pôde frequentar escolas regularmente e obter uma licença de ensino médio.

A linguagem utilizada por o poeta apresenta uma constante tensão polêmica, uma vez que se baseia na busca por estruturas e termos que respondam à realidade moçambicana dos anos sessenta do século passado, dominada pelo colonialismo português. A indignação pelo sofrimento e humilhação sofridos pelo povo de Moçambique, bem como por todos os emigrantes portugueses que queriam construir uma vida em África, mas não conseguiram, são motivo de análise das condições sociais e culturais de todo um povo, mas também de aspiração a uma dignidade a que todos os homens têm direito.

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do livro: José Craveirinha, Cantico a un dio Catrame (a cura di Joyce Lussu), Milano, Lerici, 1966.

Ao meu pai


Pai:
Maternas palavras vivem e revivem
no meu sangue
e pacientes esperam ainda a época da culima
enquanto soltas já são as tuas
sementes naturais de emigrante português
espezinhadas no passo de marcha das patrulhas
de sovacos suando nas coronhas de pesadelo.

E na minha rude e grata sinceridade
não esqueço
meu falecido português puro
que geraste no ventre da tombasana ingénua
um novo Moçambique
semi-claro para não ser igual a um ariano qualquer
e semi-negro para jamais renegar
um glóbulo que seja do Zambeze do meu signo.

Agora
para além do meu amigo Jimmy Durant
vagas subconsciencias dormem
de um Algarve de amendoeiras florindo suões
      norte-africanos
e comigo para sempre um molhado zinco tap-tap
      de lembranças
minha mãe agonizando no “rosy-doze” de esteira
      no chão
e a tua voz serena profecia de palavras paternais:
      “Zé,
quando o teu pai fechar os olhos não terás mais
      ninguém.”

Oh, pai
ainda existem em mim laivos de Aljezur da tua
      infância
mas amar por amor só amo
e só posso amar
esta mais bela e fértil nação do Mundo
onde minha mãe nasceu
me gerou e morreu.
E onde ibéricas heranças de fados e broas
se africanizaram para sempre nas minhas veias
e teu sangue moçambicanizou nos grãos de areia
      de sepultura
de velho colono morto numa cama de hospital
tão pobre como desembarcaste no cais de África
meu belo pai ex-português.

Pai: lembro-me do teu olhar
e humano o tenho agora mais na lucidez da saudade
e teus versos de improviso em loas à vida escuto
e lágrimas na demência dos silêncios em tuas
      pálpebras relembro
eu Buck Jones no vaivém dos teus joelhos
dez anos de almas nos olhos grandes fitos na tua
      figura
mas pequenos na dimensão desmedida do meu
      amor por ti
meu belo algarvio moçambicano.
E consciente reconstituo os ternos momentos de
      “anda cá, meu malandro”
e na tua campa sem mármores de colono rico
te reconheço cidadão desta pátria do teu pão de
      emigrante
chorado por lágrimas
canhos de água rolando nas morenas faces
dos teus filhos órfãos Joé e João.

Pai:
O Zé de loira mecha no cabelo crespo
o “Trinta-diabos” de joelhos
esfolados nos
      mergulhos à Zamora
e o avançado-centro de “Bicicleta” à Leónidas
de mortífera pontaria de fisga na guerra aos
      galas-galas
gozando no cartaz as proezas dos leões do
      Circo Pagel
nódoas de cajú na camisa branca
campeão de corridas notas chitututo
      “Harley Davidson”
os fundilhos de caqui avermelhados na areia dos
      “Montes do Deportivo”
as gazetas à doca dos pescadores para salvar
      Maureen O’Sullivan
os bolsos sempre cheios de tingolé e mapsinchas
as viagens clandestinas nas trasciras ga-galhã-galhã 
      do carro eléctrico
e as mangas verdes com sal
sou eu, pai, o “Cascabulho” para ti e Sontinho
      para a minha mãe
cheio de visões alucinantes de Lon Chaney.

Pai:
Afinal tu e minha mãe não morreram
mas os símbolos Texas Jack mudaram
e eu também
E alinhamos palavras agora
bandos de sécuas galhã vidos sorvendo ruivos grãos de
      sol
no tropical silo plúmbeo das nuvens

Eu deixo nesta canção de alforria para ti, meu pai
como um feixe de caniços verdes agitados no bronze
      da manhã
chorando gotas de um cacimbo de solidão
ao longo das esguias hastes esperadas na margens
das húmidas ancas sinuosas dos rios.

E nestes verso te escrevo
e neles guardo escondidos por enquanto, meu pai
os póstumos projectos
mais belos no silêncio e mais fortes na esperadas
porque nascem e renascem do meu não cicatrizado
ronga ibérico semi-ronga afro-banto coração.

Meu respaldo primeiro
Craveirinha moçambicano!

Mulata Margarida


Eu tenho uma lírica poesia
nos cinquenta escudos do meu ordenado
que me dão quinze minutos de sinceridade
na cama da multa que abortou
e pagou à parteira
com o relógio suíço do marinheiro inglês.

Mulata Margarida
da carreira do machimbombo treze
de cabelo desfrizado com ferro e brilhantina
fio de ouro com medalha de um misericordioso
Deus Nosso Senhor do patrão
e tu Joaquim chofer do táxi castanho
sabem que eu sou brom frequês
três dias apenas depois do fim do mês.

É corpo moreno de mulata Margarida
é vestido de nailon que senhor da cantina pagou
é quinhenta de chá
arroz e molh de amendoim
de Zeca Macubana que herdou olhos azuis
das românticas noites
de jazz
nos bares de Rua Araújo
enquanto a cinta clásica suspende
o ovário descaído.
E eu sei poesia
quando levo comigo a pureza
da mulata Margarida
na su décima quinta blenorragia.

Regresso


Mesmo depois
eu quero me escutem
na razão da minha voz insepulta
e viril como um punhal.

Que a terra apenas cubra
a memória dos gestos inconclusos
e não o sopro incontido
dos gritos que eu gritar
no túrgido silêncio das manãs
carregadas de mênstruo com que nascem.

E na sensualidade da minha voz insepulta
ou na paz dos metacarps cruzados
eu quero que me escutem
e sintam
e vejam rebelde e nu
como sou.

Mas do ácido sabor do fruto imaturo
perirei à conquista do horizonte dos astros
enquanto nos dedos o aroma
é da mão que colheu a flor
olhos num céu que se não vende
mas vê-se inteiro
mesmo de rastos.

E na minha humana condição
a morrer insubmisso
e a gritar vou
como as ondas que nascem das ondas do mar 
e morrem para se renovar!