Crediti dell’immagine: https://m.famigliacristiana.it
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Quella di Aldo Nove (il cui vero nome è Antonio Centanin) è una poesia che si distingue dalla volontà di collegare esigenze di carattere mistico, di ricerca dell’assoluto, a quelle di tipo umanistico e sociale che interrogano la contemporaneità. Difatti, la sua ricerca di un senso della realtà il più delle volte si traduce a un tornare all’origine del bisogno di poesia.
Non siamo mai nati non siamo mai morti Nasciamo - pensiamo - in una mondiale (un pezzettino d'universo eretto a realtà) riduzione dell'infinito a ospedale e in troppi, in troppi non ne siamo mai usciti, non ne usciamo, traditi dalle apparenze, da dicerie millenarie vi alloggiamo (e non lo sappiamo) da sempre, smarriti. Bagliori d'assoluto traditi, allettati, allietati da comfort sbagliati. Siamo stati ingannati. Imprigionati. Siamo commiati sospesi, raggelati saluti ripetuti, incantati, nel loop del domani che è ieri da sempre. Costretti all'attesa di una inesistente guarigione non viviamo se non a squarci, come fosse un sogno casuale, un ripetuto sogno la vita reale, la gita fuori dal nostro privato ospedale. Così la nostra esistenza con troppa indulgenza senile precoce trascorre qui, dove non siamo veramente. Nei reparti di un ospedale che è mesta preparazione di un funerale addobbato a carnevale di sangue e parole e giorni coagulati. Mascherati da degenti sul palco di un teatro abbandonato. Assenti, non noi, non noi ci muoviamo tra i reperti truccati nei decenni da avventori felici, attori e attrici malati di abitudini e convenzioni. Ma noi non siamo mai morti, non siamo mai nati. Non siamo malati se non per copione scritto da altri, dementi e scaltri ripetitori del potere terreno, il freno che ci ancora alla stanza in cui siamo rinchiusi. E non c'è altro dolore che questa finzione. L'unica malattia è questo ospedale. Dove ciascuno consuma il suo personale, isolato, tempo ridotto a capezzale. Ma per quale malattia, per quale errore lo sappiamo e non lo sappiamo, antinomia del mentitore che dice che vuole sapere che dice che non vuole sapere che la malattia è la nostra volontaria detenzione che chiamiamo vita e non lo è. La malattia è la nostra permanenza nell'apparenza, nella credenza che questa sia la nostra casa. Ma non lo è. E non esiste affezione che non sia il Creato sottratto a ogni forma d'immaginazione, accantonato per noi soltanto nell'angolo dilatato dagli specchi della nostra illusione moltiplicata in una vita, una sola giornata consentita, in noi identificata. Tutto ciò che ci appare è illusione. L'ospedale che ci abita, che abitiamo è illusione. Ne siamo la decorazione. La vita che viviamo dimenticanza, la nostra condizione di non sapere più che noi non siamo mai nati, non siamo mai morti. Siamo onde del mare chiuse nei reperti delle singolarità, ignori di ciò di cui siamo parte siamo una partita a carte giocata da altri che non sanno neppure di giocare ma da sempre hanno un solo obiettivo, spaventati: spaventare. Siamo la loro convulsione terminale. E invece il vento, le piante, i minerali, gli animali lo sanno, che siamo noi, il decoro dell'unico canto del tutto, un incanto tradito e terrorizzato. Siamo ciò che non ricordiamo di essere stati, il tutto che oscilla da sempre a adesso, l'originaria scintilla, accecante adesso da incarnare danzante dove persiste, nel profondo del cuore, nello scandalo osceno dell'amore universale. da Poemeti della sera, Einaudi, 2020.
Il cielo a Anita Likmeta Come ventre, infinito materno eterno consiglio giaciglio, di luci a volteggiare in un manto di angolazioni ci sommerge nell'ordito delle occasioni. Uscire dal ventre è il nostro coraggio, il viaggio nel doppio del cielo. La rotta del respiro non ha mete ma destini, nostre segrete peripezie, vie per tornare noi stessi cielo. Padre nostro che sei nei cieli, da quando ti abbiamo perduto nell'imbuto del tempo discesi, tra millenni e mesi. Padre, i tuoi nomi li abbiamo spesi a colpi di tempo, a ognuno di essi abbiamo assegnata una funzione. I nomi del cielo sono la nostra finzione di decoro, il fantasma della nostra sorgente, libi quotidiano del nostro niente, l'umano. Ma non ha nome né può averlo davvero il cielo. Così appaiono le fenditure da cui uno a uno emergiamo, attraverso cui, sospinti dalle paure di perdere ciò che non siamo ci chiamiamo, quasi a cadere, cadere a vedere cosa c'è nell'abisso del cielo. Nati, avanzati dal tutto, scarti ammantati di parole emigrati in altro dall'abbraccio del cielo. La notte e il giorno, il soggiorno nell'opposto, l'oscillare, l'andare, e lo stare, aperto e chiuso, deserto e sconcerto ancorato alle cose, certo migrare, a schemi di costellazioni, limitazioni infinite del paradosso, il viola, il colore rosso, il bianco e il nero, il falso e il vero e quel lontano senso dell'appartenenza, prima della partenza lontano dal grembo del cielo. Noi siamo stati tutto quando non eravamo noi, eravamo il cielo. L'aurora ci smentisce, istituisce l'altro che insceniamo e ogni volta che parliamo diciamo, ogni volta ripetiamo che non siamo, non siamo più il cielo. Il tramonto ci brucia le ossa, ci smangia gli occhi, memoria del tutto interrotto e ripetizione del tutto che si interrompe da quando esiste il sempre. Prima di sempre abbracciava sé stesso, puro ritmo indeterminato, non ancora creato, integro, davvero cielo. Nel pomeriggio la madre del sole cattura chi indugia nella verità, che non ci è data, in cui si rifugia l'esule, in cui sta il santo e si ritrova il pazzo. Ma la madre del sole ci cattura per amore. La prigionia (delle anime salve, delle anime sole) consapevole è la via del nostro ritorno al cielo. Il cielo da tempo ormai è diventato quanto dalla terra è stato gettato quando ci è stato dato, troppo per noi da reggere tutto. Quel cielo nel tempo è cresciuto. E quindi non il cielo, ma quanto ne serbiamo con ancestrale vergogna. Ne costruiamo un'immagine alla bisogna. Il cielo è ciò che del cielo consentiamo, deformato, di apparire quando ci può servire. Padre nostro che sei nei cieli dimenticati di noi e fa' che noi di noi stessi ci dimentichiamo, dimentichi di te, lacerato il velo. Fai, Padre, che ritorni il cielo. Come in cielo così in terra la guerra cancella l'inviolato participio passato in cui abbiamo avuto occhi che hanno veduto il cielo. Non c'è salvezza ma brezza a cui il volto conceda il privilegio del linguaggio, e le parole delle pietre urlano sempre più forte che non c'è nascita che non c'è morte. Tetre orchestrazioni di fantasmi le illusioni dell'altrove presente, ombre di ombre del niente. Parole. Ma nulla può annullare il sole, come ci inondi di cielo. Il soggetto è sbagliato in quanto soggetto, questo lo sappiamo, lo viviamo, è il nostro tormento e lo occultiamo. Per questo viviamo. Per questo moriamo lontano dal cielo. Costretti in un mito di miti saccheggiati da altri passati, da altri futuri alziamo muri per non sapere più nulla del cielo. Si chiama progresso, oppure caduta, è lo stesso, nascondere il cielo. Nessuno va in cielo. Ma è cielo quando non più qualcuno alza la fronte e guarda lontano e piano, piano ritorna alla fonte, fluisce nel cielo. Come i bambini, esuli che si spingono alle colonne d'Ercole vietate dalle inveterate colonne d'Ercole delle interdizioni, delle buone azioni, delle invenzioni che il nostro ego ha elaborato per non essere più cielo. Il cielo è dove giocano i bambini. da Poemeti della sera, Einaudi, 2020.
Rivolta contro il mondo contemporaneo Alla memoria di Luciano Perinetto e di chiunque altri abbia immaginato qui non questo mondo, non questo L'Accelerazione che tutto oggi domina non concerne il Creato, ne è la parodia in forma grottesca di mercato finito e sempre più affollato miraggio d'ombre diventato la sola destinazione che ci sia, devastazione finale, mole di duplicazioni di mondi che sono insensato consenso, pornografica poesia distorta in flusso fecale di paradossale lusso patologico verbale, cloaca di civiltà passate in parodie liofilizzate, impacchettate come i nostri desideri sempre più stanchi, avanzi sui bancali svuotati di senso di oggetti banali, già distanti nel tempo, già ologrammi su scaffali per animali a cui agogna la fogna in cui abitiamo utenti appesi al cappio. Noi che viviamo in un futuro cristallizzato, noi fingiamo che amiamo, noi che fingiamo che vogliamo e noi che per finta ci arrabbiamo, mentre per davvero accondiscendiamo allo scaduto, deprezzato presente mercificato, e scendiamo, scendiamo nel gorgo dell'inumano, noi. Noi non sappiamo più nulla di quello che siamo, del luogo da cui proveniamo e dove torneremo dopo questo inganno spaventato e violento. Non è il tempo oggi di essere originali. No è il tempo di essere diversi. Lo siamo da tempo, diversi da noi stessi. Ossessi da condizionamenti silenti perché ovunque e dunque per questo aggressivi, sempre, perché non riusciamo a scordare che malgrado tutto siamo, siamo vivi, ma lo percepiamo sempre più di rado. Come una colpa affiora la coscienza: una fitta nel costato, il passato, il futuro allagato da un'indistinta melma che fa finta di avere gli stessi colori degli anni andati, nell'indistinto senza tinta né odore reale, solo sembiante assente, pressante e non siamo pù capaci di avvertire il male nell'affondo della sostituzione del mondo con una sua simulazione in cui c'è chiesto di fare sempre più presto ma senza nessuna possibilità d'azione, senza umana misura o proporzione, nell'informe proliferare insensato di norme. Più veloce. Più presto. Sempre più presto, muoversi, muoversi tra immobili convulsioni, con ogni pretesto e senza più motivazioni, sempre più sfuocato, immotivato il versato. Negro latte dell'alba lo beviamo la sera noi lo beviamo al mattino come al meriggio ti beviamo la sera noi beviamo e beviamo noi scaviamo una tomba nell'aria, chi vi giace non sta stretto e ancora suonate perché si deve ballare. La macchina ha preso il comando, il burattinaio non ha più nessuna consapevolezza, frantuma i profitti, li spezza come popoli interi in nome di algoritmi li frantuma, ulteriormente li dimezza, li riduce in poltiglia, i popoli, i ricavati, ne moltiplica le macerie, le vende, spende quanto ci restava d'immaginario. Nella creazione di un divario spaventoso tra chi può e non è capace d'immaginare più nulla (perché nulla può fare) e chi non può altro che diventare sempre più nulla divertito, ammansito nulla come in uno specchio vecchio d'illusioni passate, incatenate per accidia costrette a riflettere sé stesse messe all'incontrario, nell'incolmabile divario tra ciò che sono e ciò che sono state, frantumate foreste di feste concluse, musei d'inganni, affanni inconcludenti, - no, non più nulla, ma nienti, somme di quantità senza sostanza, molteplicità che avanza senza qualità né somma che non sia già consumata i nostri volti, le nostre vite, i molti, i pochi, non importa più se indistinta è dipinta nella caverna, spenta la lanterna, l'immagine oramai finta di troppe finzioni, funzioni d'onda non collassate, probabilità bloccate sull'orizzonte degli eventi, universi dispersi in una bolla scoppiata, non più notte, non più giorno, non non più solo spasmodica l'attesa produce sé stessa e si ricicla esausta in vortici piccoli di già visto, sempre più piccoli fino a inghiottire sé stessi e noi tutti. Ma ce ne accorgeremo? La fine del mondo c'è già stata? Da quando piuttosto perduta? da Poemeti della sera, Einaudi, 2020.