ALDO NOVE (Viggiù -Varese- 1967)

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Quella di Aldo Nove (il cui vero nome è Antonio Centanin) è una poesia che si distingue dalla volontà di collegare esigenze di carattere mistico, di ricerca dell’assoluto, a quelle di tipo umanistico e sociale che interrogano la contemporaneità. Difatti, la sua ricerca di un senso della realtà il più delle volte si traduce a un tornare all’origine del bisogno di poesia.

Non siamo mai nati non siamo mai morti

Nasciamo - pensiamo - in una mondiale
(un pezzettino
d'universo eretto a realtà) riduzione
dell'infinito a ospedale
e in troppi,
in troppi non ne siamo mai
usciti,
non ne usciamo, traditi
dalle apparenze, da dicerie
millenarie
vi alloggiamo
(e non lo sappiamo)
da sempre,
smarriti.

Bagliori
d'assoluto traditi,
allettati,
allietati
da comfort sbagliati.

Siamo stati ingannati.
Imprigionati.

Siamo
commiati sospesi,
raggelati saluti
ripetuti,
incantati, nel loop
del domani che è ieri
da sempre.

Costretti
all'attesa
di una inesistente guarigione
non viviamo
se non a squarci, come
fosse un sogno casuale,
un ripetuto
sogno la vita
reale,
la gita fuori dal nostro
privato ospedale.

Così la nostra
esistenza con troppa
indulgenza senile
precoce
trascorre qui,
dove non siamo veramente.

Nei reparti di un ospedale
che è mesta
preparazione di un funerale
addobbato
a carnevale di sangue
e parole e giorni
coagulati.

Mascherati
da degenti sul palco
di un teatro
abbandonato. Assenti,

non noi,
non noi

ci muoviamo tra i reperti
truccati
nei decenni da avventori
felici, attori
e attrici malati
di abitudini e convenzioni.

Ma noi non siamo mai morti,
non siamo mai nati.
Non siamo malati
se non per copione
scritto da altri,
dementi e scaltri
ripetitori del potere
terreno, il freno
che ci ancora alla stanza
in cui siamo rinchiusi.

E non c'è altro dolore
che questa finzione.

L'unica malattia è questo ospedale.
Dove ciascuno consuma il suo personale,
isolato,
tempo ridotto a
capezzale. Ma per quale
malattia, per quale
errore
lo sappiamo e
non lo sappiamo,

antinomia del mentitore
che dice che vuole sapere
che dice che non vuole sapere che

la malattia è
la nostra volontaria
detenzione
che chiamiamo vita
e non lo è. La malattia
è la nostra permanenza
nell'apparenza,
nella credenza che questa
sia la nostra casa. Ma
non lo è.

E non esiste affezione
che non sia il Creato
sottratto
a ogni forma
d'immaginazione,
accantonato
per noi soltanto
nell'angolo dilatato
dagli specchi
della nostra illusione moltiplicata
in una vita,
una sola giornata
consentita, in noi
identificata.

Tutto ciò che ci appare è illusione.

L'ospedale che ci abita,
che abitiamo è illusione.
Ne siamo la decorazione.

La vita che viviamo
dimenticanza, la
nostra condizione di non
sapere
più che noi

non siamo mai nati,
non siamo mai morti.

Siamo onde del mare
chiuse nei reperti delle singolarità,
ignori di ciò di cui siamo parte
siamo una partita a carte
giocata da altri
che non sanno
neppure di giocare ma da sempre
hanno un solo obiettivo,
spaventati:
spaventare. Siamo
la loro convulsione
terminale.

E invece
il vento, le piante,
i minerali, gli animali
lo sanno, che siamo noi,
il decoro dell'unico canto del tutto,
un incanto tradito
e terrorizzato. Siamo ciò che
non ricordiamo di essere stati,
il tutto che oscilla
da sempre a adesso,
l'originaria
scintilla, accecante
adesso da incarnare danzante
dove persiste,
nel profondo
del cuore,

nello scandalo 
osceno dell'amore
universale.


da Poemeti della sera, Einaudi, 2020.

Il cielo

                                 a Anita Likmeta


Come ventre, infinito
materno
eterno
consiglio
giaciglio,
di luci a volteggiare in un manto
di angolazioni ci sommerge
nell'ordito
delle occasioni.

Uscire dal ventre è il nostro coraggio,
il viaggio nel
doppio del
cielo.

La rotta del respiro non ha mete
ma destini,
nostre segrete peripezie,
vie per tornare
noi stessi
cielo.

Padre nostro che sei nei cieli,
da quando ti abbiamo perduto
nell'imbuto
del tempo discesi, tra millenni
e mesi.

Padre, 
i tuoi nomi
li abbiamo spesi
a colpi di tempo, a ognuno
di essi abbiamo
assegnata una funzione.

I nomi del cielo sono la nostra
finzione
di decoro, 
il fantasma
della nostra sorgente,
libi quotidiano
del nostro
niente,
l'umano.
Ma non ha nome
né può averlo davvero
il 
cielo.

Così appaiono le fenditure
da cui uno a uno emergiamo,
attraverso cui,
sospinti dalle paure
di perdere ciò che non siamo
ci chiamiamo, quasi
a cadere,
cadere
a vedere
cosa c'è
nell'abisso
del
cielo.

Nati, avanzati
dal tutto, scarti
ammantati di parole
emigrati in altro
dall'abbraccio
del
cielo.

La notte e il giorno,
il soggiorno nell'opposto,
l'oscillare,
l'andare,
e lo stare,
aperto
e chiuso,
deserto
e sconcerto
ancorato alle cose,
certo migrare, a schemi
di costellazioni,
limitazioni infinite
del paradosso, il viola,
il colore rosso,
il bianco e il nero,
il falso e il vero
e quel lontano
senso dell'appartenenza,
prima della partenza
lontano dal grembo del 
cielo.

Noi siamo stati tutto
quando non eravamo
noi, eravamo
il
cielo.

L'aurora ci smentisce,
istituisce l'altro
che insceniamo
e ogni volta che parliamo
diciamo, ogni
volta ripetiamo
che non siamo,
non siamo
più il
cielo.

Il tramonto ci brucia le ossa,
ci smangia gli occhi,
memoria del tutto
interrotto
e ripetizione
del tutto
che si interrompe
da quando esiste
il sempre.
Prima di sempre abbracciava
sé stesso,
puro ritmo
indeterminato,
non
ancora
creato,
integro,
davvero
cielo.

Nel pomeriggio
la madre del sole
cattura chi indugia
nella verità,
che non ci è data,
in cui si rifugia
l'esule,
in cui sta
il santo
e si ritrova il pazzo.

Ma la madre del sole ci cattura per amore.
La prigionia (delle anime
salve,
delle anime sole)
consapevole
è la via
del nostro
ritorno al
cielo.

Il cielo da tempo ormai è diventato quanto
dalla terra è stato gettato
quando ci è stato
dato,
troppo per noi
da reggere
tutto. Quel cielo
nel tempo
è cresciuto. E quindi
non il cielo,
ma quanto ne serbiamo
con ancestrale vergogna. Ne costruiamo
un'immagine alla bisogna. Il cielo
è ciò che del cielo
consentiamo, deformato,
di apparire
quando ci può servire.

Padre
nostro che sei nei cieli
dimenticati di noi
e fa' che noi
di noi stessi ci dimentichiamo,
dimentichi di te,
lacerato il velo. Fai, Padre, che
ritorni il
cielo.

Come in cielo
così in terra
la guerra
cancella
l'inviolato
participio passato
in cui abbiamo avuto
occhi
che hanno veduto il
cielo.

Non c'è salvezza
ma brezza a cui il volto
conceda
il privilegio del linguaggio,
e le parole delle pietre
urlano sempre più forte
che non c'è nascita
che non c'è morte. Tetre
orchestrazioni
di fantasmi le illusioni
dell'altrove
presente, ombre
di ombre
del niente. Parole. Ma nulla
può annullare
il sole,
come ci inondi di
cielo.

Il soggetto è sbagliato in quanto soggetto,
questo lo sappiamo,
lo viviamo,
è il nostro tormento
e lo occultiamo. Per questo
viviamo.
Per questo moriamo
lontano dal
cielo.

Costretti in un mito
di miti saccheggiati
da altri passati,
da altri futuri
alziamo muri
per non sapere
più nulla del
cielo.

Si chiama progresso,
oppure caduta,
è lo stesso,
nascondere
il 
cielo.
Nessuno va in cielo.
Ma è cielo
quando non più
qualcuno
alza la fronte
e guarda lontano
e piano,
piano
ritorna alla fonte,
fluisce nel
cielo.

Come i bambini,
esuli che si spingono
alle colonne
d'Ercole vietate
dalle inveterate
colonne d'Ercole
delle interdizioni,
delle buone azioni,
delle invenzioni
che il nostro ego
ha elaborato
per non essere più
cielo.

Il cielo è dove
giocano i bambini.




da Poemeti della sera, Einaudi, 2020.

Rivolta contro il mondo contemporaneo

                        Alla memoria di Luciano Perinetto
                     e di chiunque altri abbia immaginato
                                    qui non questo mondo,
                                               non questo

L'Accelerazione che tutto
oggi domina
non concerne
il Creato, ne è la parodia
in forma grottesca di mercato
finito
e sempre più affollato
miraggio d'ombre

diventato
la sola
destinazione
che ci sia,

devastazione
finale,
mole
di duplicazioni
di mondi
che sono insensato
consenso,

pornografica poesia
distorta
in flusso
fecale di
paradossale
lusso
patologico
verbale,
cloaca di civiltà
passate
in parodie
liofilizzate,

impacchettate
come i nostri
desideri
sempre più stanchi,

avanzi
sui bancali
svuotati di senso
di oggetti
banali, già
distanti
nel tempo,

già ologrammi
su scaffali
per animali a cui agogna
la fogna
in cui
abitiamo
utenti
appesi
al cappio.

Noi
che viviamo
in un futuro
cristallizzato,

noi
fingiamo
che amiamo,
noi che fingiamo
che vogliamo

e noi che per finta
ci arrabbiamo,

mentre
per davvero
accondiscendiamo
allo scaduto, deprezzato
presente mercificato,

e scendiamo,
scendiamo
nel gorgo
dell'inumano, noi.

Noi non sappiamo
più nulla di quello
che siamo,
del luogo da cui proveniamo
e dove torneremo
dopo questo inganno spaventato
e violento.

Non è il tempo oggi
di essere originali.

No è il tempo
di essere diversi.

Lo siamo da tempo,
diversi da noi stessi. Ossessi
da condizionamenti
silenti perché ovunque
e dunque per questo aggressivi,
sempre, perché non riusciamo a scordare
che malgrado
tutto siamo,
siamo

vivi,
ma lo percepiamo
sempre più
di rado.
Come una colpa
affiora la coscienza:
una fitta nel costato,

il passato,
il futuro
allagato
da un'indistinta
melma che fa finta
di avere gli stessi colori
degli anni andati,
nell'indistinto
senza tinta
né odore reale,
solo sembiante assente,
pressante

e non siamo pù capaci di avvertire
il male nell'affondo
della sostituzione
del mondo
con una sua simulazione
in cui c'è chiesto
di fare sempre
più
presto
ma
senza nessuna possibilità
d'azione, senza umana
misura o proporzione,
nell'informe
proliferare insensato
di norme.

Più veloce.
Più presto.

Sempre
più presto,
muoversi,
muoversi tra immobili
convulsioni,
con ogni pretesto
e senza più motivazioni,
sempre più
sfuocato,
immotivato il versato.

Negro latte dell'alba lo beviamo la sera
noi lo beviamo al mattino come al meriggio
ti beviamo la sera noi
beviamo
e beviamo
noi scaviamo
una tomba nell'aria, chi vi
giace non sta stretto
e ancora suonate
perché si deve
ballare.

La macchina ha preso il comando,
il burattinaio non ha più nessuna consapevolezza,
frantuma i profitti, 
li spezza
come popoli interi
in nome di algoritmi
li frantuma, ulteriormente
li dimezza,
li riduce in poltiglia,
i popoli,
i ricavati,

ne moltiplica
le macerie, le vende,
spende quanto
ci restava d'immaginario.

Nella creazione di un divario
spaventoso
tra chi può
e non è capace
d'immaginare
più nulla
(perché nulla può fare)
e chi non può altro che
diventare
sempre più
nulla
divertito,
ammansito
nulla

come in uno specchio
vecchio d'illusioni
passate, incatenate
per accidia

costrette a riflettere
sé stesse messe
all'incontrario,
nell'incolmabile divario
tra ciò che sono
e ciò che sono state,
frantumate foreste
di feste concluse,
musei d'inganni,
affanni inconcludenti,

- no, non più
nulla,
ma
nienti,

somme 
di quantità
senza
sostanza,
molteplicità che avanza
senza qualità né somma
che non sia già
consumata

i nostri
volti,
le nostre vite,
i molti, i pochi, non importa
più se indistinta
è dipinta nella caverna,
spenta la lanterna,
l'immagine oramai
finta di troppe
finzioni,
funzioni d'onda
non collassate, probabilità
bloccate sull'orizzonte degli eventi,
universi dispersi in una bolla scoppiata,

non più notte,
non più giorno,
non non più

solo spasmodica l'attesa produce
sé stessa e si ricicla
esausta in vortici
piccoli di già visto,
sempre più piccoli fino
a inghiottire
sé stessi e noi tutti. Ma ce ne accorgeremo?
La fine del mondo c'è già stata?
Da quando piuttosto perduta?



da Poemeti della sera, Einaudi, 2020.

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